Son qui che ascolto Mingus e mi torna il tuo viso, violento come quella sera calda d’estate. Quell’attimo, quell’onda di stanchezza, di sbuffo tenero, nelle luci basse del locale. Fuori cominciò a piovere. I tuoi capelli come uno scialle, come una corda di Mingus percossa dall’eternità, come un vulcano assopito nella terra, addormentato nei fiumi teneri e caldi delle vene mani azzurre e bianche della tua misteriosa pallida tristezza. Il tremare dei gradini nelle dolci scale morenti, fra il metallo e i coni gelato e l’astratto be bop dei lunghi passi. Distanze, distanze, distanze. Quello scivolare ansante delle stelle, quella fatica d’universo. Il bum sicuro di un tamburo. Ma quel tuo viso, quella sera, è un tormento, l’iride in cui perdersi. Un attimo in cui lasciare la vita morire, per riprenderla domani.
L.