Monk entra, grosso, enorme, caracolla, sembra cadere, si guarda intorno e avvicina lo sgabello al pianoforte. 88 tasti, un duro lavoro. Nellie lo guarda da dietro una porta, amore & amore, nulla più, qualcosa fra una madre, un angelo custode e una moglie. Monk alza le dita e picchia, percuote i tasti come una vendemmia, l’arte di un raccolto, miete. I musicisti lo inseguono come metronomi in affanno, a bocca aperta, soldati in parata sotto l’ Arco di Trionfo del jazz. Nellie ha una mano sulla bocca. Ha paura che si spezzi, che finisca così, su una poltrona, comodo. Nellie non è ancora ora, Monk spezza la melodìa, tira fuori le ossa, anche le più minuscole, in un domino impazzito di note, le scaraventa nella sua barba dura, ricadono in piccole esplosioni. Bum. Ora è il sax tenore che cerca una via, accecato dai bagliori. Geme. Monk si alza. Fa un giro su se stesso. Oh, crazy man. Sembra avvicinarsi al contrabbassista. Forse gli vuol dire che no, non ci siamo, sei troppo regolare, non affondi la lama, non spezzi, non esulti. Non lo fa. Sorride. E a Nellie scende quasi una lacrima sotto quel cappello bianco. Torna allo sgabello. La bocca è aperta e gli occhi nuotano in un bianco che sa di acqua. Riprende la danza. Scherza come un bimbo. Accarezza. Non fa mai male, non può. Un inchino. Ora Monk ha terminato. Un altro inchino. Il piano giace confuso, ansima, ma non si è mai divertito tanto. Nellie lo accarezza sulle guance. Amore, andiamo, ti si è sbottonata la camicia. Andiamo, a te penserò io. New York respira lenta, Thelonious, mentre tu e Nellie vi abbracciate come ragazzini. Misterioso, misterioso Monk.
(08/08/2008)
L.